storia dell'economia

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"Ariannina"
view post Posted on 27/6/2009, 15:20




storia dell'economia



Economia Scienza sociale che si occupa di produzione, distribuzione, scambio e consumo di beni e servizi. Studia il modo in cui individui, gruppi, imprese e governi cercano di raggiungere in modo efficace l'obiettivo economico che si sono prefissati. A questa ricerca contribuiscono anche altri settori di analisi: psicologia ed etica tentano di spiegare come si formano le finalità umane e la storia ne registra i mutamenti; la sociologia interpreta il comportamento umano nei contesti sociali. L'economia può essere divisa in due settori principali. Il primo, la teoria dei prezzi o microeconomia, spiega come l'interazione di domanda e offerta nei mercati concorrenziali crei una miriade di variazioni di prezzi, retribuzioni, margini di profitto e rendite. La microeconomia ipotizza che la gente si comporti razionalmente: i consumatori cercano di spendere il proprio reddito in modo da massimizzare l'utilità; da parte loro, gli imprenditori perseguono il maggior profitto possibile. Il secondo campo, la macroeconomia, riguarda le spiegazioni del reddito nazionale e dell'occupazione. La macroeconomia è stata formulata dall'economista inglese John Maynard Keynes nella Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1935). La sua spiegazione della prosperità e della depressione economica si basa sulla domanda totale o "aggregata" di beni e servizi da parte di consumatori, investitori e pubbliche amministrazioni. Dato che, secondo Keynes, l'insufficienza della domanda aggregata aumenta la disoccupazione, la cura più indicata è l'aumento dell'investimento da parte delle imprese o l'incremento della spesa pubblica con i conseguenti maggiori disavanzi (o deficit) di bilancio.
Storia del pensiero economico
La riflessione teorica sulle questioni economiche comincia già nell'antichità. Nell'antica Grecia Aristotele e Platone analizzarono i problemi legati alla ricchezza, alla proprietà e agli scambi; entrambi ritenevano il commercio un'attività sconveniente. I romani derivarono le proprie idee economiche dai greci, condividendone il disprezzo per il commercio. Nel Medioevo, le convinzioni economiche della Chiesa cattolica romana vennero espresse nel diritto canonico, il quale condannava l'usura (il percepire interessi sul denaro prestato) e considerava il commercio attività moralmente inferiore all'agricoltura. La costituzione dell'economia in disciplina autonoma, distinta dalla filosofia morale e dalla politica, risale all'opera Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) dell'economista e filosofo scozzese Adam Smith. Il mercantilismo e le teorie dei fisiocratici precorsero l'economia classica di Smith e dei suoi successori del XIX secolo.
Mercantilismo
Lo sviluppo del moderno nazionalismo avvenuto nel XVI secolo spostò l'attenzione sul problema dell'incremento della ricchezza e della potenza dei vari stati nazionali. La politica economica dei governanti dell'epoca, denominata "mercantilismo", cercava di incoraggiare l'autosufficienza nazionale. La fortuna della scuola mercantilista in Inghilterra e nell'Europa occidentale fu costante dal XVI secolo ai primi anni del XVIII. I mercantilisti, che consideravano oro e argento indicatori di potenza nazionale, davano per scontato che il loro paese fosse in guerra con i vicini oppure stesse riprendendosi da un recente conflitto oppure stesse preparandosi a lanciarsi in una nuova impresa bellica: con oro e argento si potevano assumere truppe mercenarie o acquistare armi, uniformi e cibo per soldati e marinai. La preoccupazione dei mercantilisti riguardo ai metalli preziosi ispirò anche numerose politiche interne. Per una nazione era essenziale mantenere bassi i salari e contare su una popolazione numerosa e in crescita: un alto numero di abitanti mal pagati produceva infatti una maggior quantità di merci da vendere a basso prezzo sul mercato estero. Per di più, quanto prima iniziavano a lavorare i fanciulli, tanto meglio era per la prosperità del paese.
Fisiocrazia
La fisiocrazia si sviluppò in Francia durante la seconda metà del XVIII secolo per reazione alle politiche restrittive del mercantilismo. Il fondatore della scuola, François Quesnay, era un medico di corte di Luigi XV. Il suo lavoro principale, il Tableau économique (Quadro economico), un tentativo di rintracciare i flussi di reddito attraverso l'economia, anticipò in forma embrionale la teoria del conto economico nazionale sviluppata nel XX secolo. Tutta la ricchezza, secondo i fisiocratici, ha origine dall'agricoltura; attraverso il commercio viene poi distribuita ad altri gruppi. I fisiocratici, sostenitori del libero scambio e dell'economia liberista (vedi Laissez-faire), ritenevano che le entrate statali dovessero provenire da un'unica imposta sulla terra. Adam Smith conobbe i principali esponenti della scuola fisiocratica e nei suoi scritti si mostrò in gran parte favorevole alle loro dottrine.
La Scuola classica
In quanto teoria economica organica, la scuola classica inizia con Smith, prosegue con gli economisti inglesi Thomas Robert Malthus e David Ricardo, e culmina nella sintesi di John Stuart Mill, che in gioventù fu seguace delle teorie di Ricardo. Sebbene nei tre quarti di secolo che separano La ricchezza delle nazioni di Smith dai Principi di economia politica di Mill gli economisti classici discordassero su molti punti, essi concordavano sulle questioni fondamentali. Tutti credevano nella proprietà privata, nei liberi mercati e ritenevano che solo attraverso il principio della concorrenza l'economia politica potesse avere una dimensione scientifica. Condividevano inoltre la grande diffidenza di Smith nei confronti del governo e la sua forte convinzione nel potere del tornaconto personale, rappresentato dalla famosa "mano invisibile", che conciliava il beneficio pubblico con la ricerca individuale del guadagno personale. Da Ricardo, i classicisti derivarono infine la nozione di "rendimenti decrescenti", secondo la quale al crescere delle quantità lavoro e capitale applicate alla terra, si raggiungeva un punto in cui i rendimenti addizionali diminuivano. Con lo spostamento dell'enfasi dal consumo alla produzione, l'ambito dell'economia si era notevolmente ampliato: Smith era ottimista circa le possibilità di migliorare il tenore generale di vita e richiamò l'attenzione sull'importanza di permettere ai singoli di perseguire il proprio interesse personale quale mezzo di promozione della prosperità nazionale. Malthus, al contrario, nella sua opera Saggio sul principio della popolazione (1798), aggiunse una nota di pessimismo all'economia classica, affermando che le speranze di prosperità erano destinate a infrangersi sullo scoglio dell'eccessiva crescita demografica. Il cibo, sosteneva Malthus, sarebbe aumentato sempre di una quantità costante (2-4-6-8-10 e così via), ma la popolazione sarebbe raddoppiata a ogni generazione (2-4-8-16-32 e così via), a meno che questo raddoppio non fosse limitato dalla natura o dalla previdenza umana. L'unica via di uscita dalla pressione demografica e dall'innaturale controllo forzato delle nascite era dunque rappresentata dalla limitazione volontaria delle nascite. L'opera Principi di economia politica (1848) di Mill, il testo guida in materia fino alla fine del XIX secolo, espresse molto bene il suo approccio riformatore, favorevole a un'incisiva tassazione delle successioni e a una forte tutela dei lavoratori e dei fanciulli da parte dello stato. Mill, molto più critico di altri economisti classici verso il comportamento delle imprese e favorevole alla proprietà operaia delle fabbriche, rappresenta pertanto un ponte tra l'economia classica del liberismo e l'emergente stato assistenziale. Gli economisti classici accettavano inoltre la "Legge degli sbocchi", formulata nel Trattato di economia politica (1803) dall'economista francese Jean-Baptiste Say (1767-1832), secondo la quale il pericolo di una generale disoccupazione in un'economia concorrenziale è trascurabile in quanto l'offerta tende a creare la sua stessa domanda fino ad assorbire completamente il lavoro umano e le risorse naturali disponibili per la produzione: ogni aumento di produzione incrementa infatti i salari e gli altri redditi che costituiscono i fondi necessari per assorbire la produzione in eccesso.
Marxismo
L'opposizione alla scuola classica di economia venne inizialmente dai primi autori socialisti come il filosofo sociale francese Claude-Henri de Saint-Simon e il riformatore inglese Robert Owen. Fu tuttavia Karl Marx a formulare le principali teorie sociali. Il marxismo, che rifiutò decisamente la visione classica del capitalismo, ne riprese tuttavia una parte dei temi. Marx adottò, ad esempio, una versione della teoria del valore-lavoro di Ricardo. Ricardo aveva spiegato la teoria dei prezzi ricorrendo alla differenziazione delle quantità di lavoro umano necessarie per produrre i diversi prodotti finiti. Per Marx, la spiegazione fondamentale del capitalismo era invece la teoria del valore-lavoro, chiave di lettura della dinamica interna delle diseguaglianze e dello sfruttamento propri di un sistema ingiusto. Autoesiliatosi a Londra dalla Germania, Marx, grazie all'aiuto dell'amico e collaboratore Friedrich Engels, svolse vaste ricerche che lo condussero alla convinzione che il profitto e altri redditi derivanti dalla proprietà erano il risultato di azioni fraudolente o violente dei forti contro i più deboli. Marx affermò che nella storia economica inglese l'"accumulazione primitiva" si era concretizzata per la prima volta nella recinzione della terra. Nel XVII e XVIII secolo, i proprietari terrieri avevano approfittato del controllo che esercitavano sul Parlamento per sottrarre ai loro fittavoli i diritti tradizionali sulle terre comuni. Espropriati degli attrezzi e della terra, gli uomini, le donne e i bambini inglesi dovettero cercare scampo nelle città e lavorare nelle fabbriche come salariati. Per Marx esisteva quindi un conflitto fondamentale tra i capitalisti, che possedevano i mezzi di produzione (fabbriche e macchinari), e i lavoratori o proletari, che non possedevano altro che le proprie braccia. Lo sfruttamento, cuore della dottrina marxista, viene misurato dalla capacità dei capitalisti di pagare i meri salari di sussistenza agli operai e tenere per se stessi come profitto (o plusvalore) la differenza tra i salari e il prezzo di vendita dei prodotti di mercato. Marx ed Engels erano convinti che il sistema capitalista fosse transitorio e che le contraddizioni interne ne avrebbero sicuramente determinato la fine; esso era quindi destinato a scomparire al pari del sistema che l'aveva preceduto, il feudalesimo. Su questo punto Marx non seguì la tradizione dell'economia classica inglese, bensì la dottrina del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il quale interpretava il movimento della storia e del pensiero umani come una progressione di tensioni dialettiche: tesi, antitesi e sintesi. Ad esempio, la tesi poteva essere l'idea di un sistema economico quale il capitalismo e la sua antitesi storica il socialismo. La contrapposizione tra tesi e antitesi si evolveva in uno stadio superiore, in questo caso il comunismo, che unisce la tecnologia capitalista con la proprietà sociale di fabbriche e aziende agricole. Marx credeva che a lungo andare il capitalismo sarebbe crollato, in quanto la tendenza a concentrare il reddito e la ricchezza nelle mani di un numero sempre più ristretto di individui avrebbe causato sempre più gravi crisi per eccesso di produzione e un aumento della disoccupazione: la crescente efficienza tecnologica sarebbe entrata in contraddizione con la mancanza del potere d'acquisto necessario per comperare ciò che veniva prodotto in sempre maggiori quantità. Secondo Marx le crisi del capitalismo si sarebbero manifestate nella caduta dei margini di profitto, nel crescente antagonismo tra operai e datori di lavoro e in depressioni sempre più gravi. La lotta di classe sarebbe divenuta rivoluzionaria, sfociando dapprima nel socialismo e poi nel comunismo. Nel socialismo il lavoro sarebbe stato compensato secondo il contributo dato da ciascuno alla produzione; nella società comunista invece ciascuno sarebbe stato remunerato secondo il proprio bisogno.
I neoclassici
L'economia classica si basava sul presupposto della "scarsità", come mostrano la legge dei rendimenti decrescenti e la dottrina malthusiana della popolazione. A partire dal 1870, gli economisti neoclassici come William Stanley Jevons (1835-82) in Inghilterra, Léon Walras (1834-1910) in Francia e Karl Menger (1840-1921) in Austria spostarono l'attenzione dalle limitazioni dell'offerta all'interpretazione della scelta del consumatore in termini psicologici. Concentrandosi sull'utilità o soddisfazione procurata dall'ultima "dose" (quantità di merce) acquistata, detta anche "marginale" (da cui il nome di marginalisti dato ai neoclassici), questi economisti spiegarono i prezzi di mercato facendo riferimento non alle diverse quantità di lavoro umano necessario per produrre i vari beni, come nelle teorie di Ricardo e Marx, bensì alla preferenza del consumatore per una o più unità di ogni dato bene. L'economista inglese Alfred Marshall, in particolar modo nell'opera considerata il capolavoro del neoclassicismo economico Principi di economia (1890), spiegò la domanda in termini di utilità marginale e l'offerta con i particolari della produttività marginale (il costo della produzione dell'ultima dose di un dato bene). Nei mercati concorrenziali, sosteneva Marshall, le preferenze dei consumatori per i prezzi bassi e quelle dei venditori per i prezzi elevati vengono equilibrate a un livello accettabile per entrambi i gruppi (equilibrio parziale): qualunque sia il prezzo corrente di un bene, i compratori desiderano acquistare esattamente la quantità di prodotti che i venditori sono disposti a offrire a quel prezzo. Come nei mercati per i beni di consumo, questa uguaglianza tra l'offerta e la domanda si verificava anche nel mercato monetario e in quello del lavoro. Nei mercati monetari, il tasso d'interesse determinava l'accordo fra quanti richiedevano prestiti (mutuatari) e quanti li offrivano (prestatari). I primi si aspettavano di usare i mutui per guadagnare profitti maggiori dell'interesse che dovevano pagare; i prestatari, a loro volta, chiedevano un prezzo per posticipare il godimento del loro denaro. Nei mercati concorrenziali del lavoro, i salari pagati rappresentavano almeno il valore che per l'imprenditore aveva il prodotto ottenuto dal lavoro, e per il dipendente la minima retribuzione accettabile. La tendenza intrinseca della dottrina neoclassica è stata politicamente conservatrice. I suoi sostenitori preferiscono i mercati concorrenziali all'intervento governativo e, almeno fino alla Grande Depressione degli anni Trenta, sottolinearono che le migliori politiche pubbliche erano quelle conformi alla dottrina di Adam Smith: imposte basse, risparmio nelle spese pubbliche e bilanci in pareggio. I neoclassici non indagano le origini della ricchezza, spiegano perlopiù le disparità nel reddito e nella ricchezza con le differenze fra talento, intelligenza, energia e ambizione dei singoli. Pertanto, il successo o l'insuccesso dipendono dagli attributi personali, e non da speciali vantaggi o da particolari impedimenti.
Economia keynesiana
John Maynard Keynes, discepolo di Alfred Marshall, fu un esponente dell'economia neoclassica fino agli anni Trenta, quando la Grande Depressione sorprese economisti e politici. I primi continuarono a sostenere, contro la crescente evidenza, che il tempo e la natura avrebbero ricreato la prosperità se il governo si fosse astenuto dal manipolare l'economia: sfortunatamente, i rimedi approvati non funzionarono. Negli Stati Uniti, la schiacciante vittoria di Franklin Delano Roosevelt su Herbert Clark Hoover nelle elezioni presidenziali del 1932 dimostrò la bancarotta delle politiche liberistiche. Erano necessarie nuove spiegazioni e nuove politiche; esattamente quello che offrì Keynes. Nella Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta egli enunciò due tesi fondamentali: 1) le spiegazioni date della disoccupazione sono prive di senso: né gli alti prezzi né gli alti salari potevano spiegare la persistente depressione e la disoccupazione di massa; 2) la spiegazione va invece ricercata nella domanda aggregata, cioè nella spesa totale di consumatori, investitori e organismi statali. Quando la domanda aggregata è bassa, teorizzava Keynes, il lavoro e le vendite ne risentono; quando è alta, si creano i presupposti per la prosperità. Da queste premesse scaturiva una visione forte e completa del funzionamento del sistema economico, base della macroeconomia contemporanea. Dato che i consumatori erano limitati dall'entità dei propri redditi, essi non potevano essere la causa degli alti e bassi del ciclo economico. Ne conseguiva che le forze dinamiche erano gli investitori e i governi: in stato di recessione o depressione, era dunque necessario aumentare l'investimento privato o sopperire con l'investimento pubblico all'insufficienza di quello privato. L'espansione del credito e i bassi tassi di interesse (politica monetaria) possono infatti stimolare l'investimento dell'impresa e riportare la domanda aggregata a un livello compatibile con la piena occupazione. Contrazioni più severe necessitano di un rimedio più drastico: disavanzi di bilancio per finanziarie opere pubbliche o sussidi a gruppi svantaggiati.
Economia matematica
Sia la teoria dei prezzi neoclassica sia la teoria del reddito keynesiana si sono avvalse del calcolo infinitesimale, dell'algebra lineare e di altri metodi matematici avanzati. Il connubio più noto tra l'economia e la matematica si è avuto nella disciplina denominata econometria. Gli econometristi costruiscono modelli con centinaia o migliaia di equazioni che intendono spiegare il comportamento di un intero sistema economico. Come strumenti di previsione, i modelli econometrici vengono generalmente utilizzati sia dalle società sia dai governi. La ricerca operativa e l'analisi delle interdipendenze strutturali sono altre due discipline nelle quali l'analisi economica e la matematica interagiscono. La ricerca operativa adotta un approccio sistematico ai problemi, applicato prevalentemente al coordinamento delle funzioni di un'azienda a impianti multipli, alla minimizzazione dei costi e alla massimizzazione dell'efficienza. Nella definizione del suo inventore, l'economista russo-americano Vasilij Leontief, le tavole di analisi delle interdipendenze strutturali "descrivono il flusso di prodotti e servizi fra tutti i settori dell'economia nazionale in un dato periodo di tempo". Questo metodo ha avuto un enorme impatto sul pensiero economico ed è attualmente molto usato sia nei paesi socialisti sia in quelli capitalisti.
Sistemi economici
Tutte le comunità organizzate combinano, in varie proporzioni, attività di mercato e intervento governativo. I mercati privati differiscono ampiamente per il grado di concorrenza che li caratterizza. Fortemente differenziato si presenta anche l'intervento statale, che va dalla manipolazione di tasse, credito, contratti, alle politiche di controllo dei salari e dei prezzi, fino alla gestione capillare centralizzata dei paesi comunisti. Anche in questi ultimi è però presente qualche concessione all'impresa privata: ad esempio nell'ex URSS, dove era consentito agli agricoltori, anche se organizzati in imprese collettive, di commerciare prodotti coltivati su appezzamenti privati; o in Iugoslavia, dove il governo si cimentò nella gestione operaia delle imprese durante il periodo comunista. Analoghe differenze esistono tra le economie capitaliste. In molte di queste, il governo possiede e gestisce ferrovie e linee aeree, e persino quando l'assoluto possesso statale è l'eccezione, come in Giappone, il governo centrale esercita una fortissima influenza sull'attività economica. Gli Stati Uniti, il paese capitalista più fedele al principio dell'iniziativa privata, hanno aiutato le imprese in difficoltà, come nel caso della Lockheed e della Chrysler, e hanno trasformato un certo numero di grandi appaltatori della difesa in società sussidiarie federali. Molti economisti americani hanno dovuto dunque accettare il concetto di "economia mista", che combina l'iniziativa privata con un certo grado di controllo statale.
Libera impresa
Le maggiori differenze tra l'organizzazione economica comunista e quella capitalista riguardano la proprietà di fabbriche, aziende agricole e altre imprese, nonché la formazione dei prezzi e la distribuzione del reddito. In molte economie capitaliste la maggior parte del prodotto nazionale lordo (PNL) viene generata direttamente dalle imprese con finalità di lucro e da entità non-governative volontarie quali università private, ospedali, cooperative e fondazioni. Recentemente diversi paesi, specialmente la Gran Bretagna, hanno privatizzato molte imprese pubbliche e hanno introdotto la concorrenza in molti servizi (quali salute e istruzione). Questa tendenza mondiale verso la privatizzazione, che si sta introducendo anche in Italia, ha ridotto in maniera significativa l'interferenza statale nell'operatività dell'industria e diminuito l'influenza del governo sulla fissazione dei prezzi. In effetti, il prezzo più importante controllato dalle pubbliche autorità è quello del denaro, cioè il tasso di interesse. Sebbene l'opposizione ai controlli e alla pianificazione nazionale sia molto forte nel mondo sviluppato, i governi hanno ripetutamente fatto ricorso a queste misure in tempi d'emergenza, come durante la seconda guerra mondiale. In generale, però, le economie di libero mercato considerano la proprietà statale della produzione e l'interferenza governativa nella fissazione dei prezzi deplorevoli eccezioni alla regola del governo dell'economia da parte della proprietà privata e dei mercati.
Pianificazione centrale
Esattamente opposto è l'atteggiamento della Cina e di altri paesi comunisti a pianificazione economica centrale. Sebbene le imprese private siano sempre più tollerate e nessuna economia centralizzata possa funzionare senza contare sulla proprietà privata di terra agricola, in questi paesi l'ideologia dominante favorisce la pianificazione statale rispetto alla fissazione dei prezzi in modo concorrenziale, almeno in teoria, e il possesso pubblico delle imprese. Riassumendo, non vi è ragione per cui una comunità democratica non possa liberamente scegliere di pianificare la produzione, i prezzi e la distribuzione del reddito e della ricchezza. Nell'esperienza contemporanea, però, la pianificazione economica centralizzata (vedi Dirigismo economico) si è generalmente accompagnata al controllo del partito comunista sulla vita politica; è peraltro vero che anche il capitalismo è spesso stato accompagnato da governi repressivi, come ad esempio in Cile e Brasile. I problemi più gravi del capitalismo sono la disoccupazione, l'inflazione e l'ingiustizia economica; problemi paralleli nelle economie pianificate centralizzate riguardano la sottoccupazione, il razionamento, la burocrazia e la carenza di molti beni di consumo.
Economie socialiste liberali
A metà tra le società che enfatizzano la pianificazione centrale oppure la libera impresa si trovano quelle che praticano la democrazia sociale o il socialismo liberale; esempi di democrazia sociale sono i paesi scandinavi, specialmente la Svezia. La Svezia organizza il grosso dell'attività produttiva nella proprietà privata ma regola questa attività da vicino, interviene per proteggere il lavoro degli operai e ridistribuisce porzioni significative dei profitti a gruppi a basso reddito. La validità di questo sistema è stata recentemente messa in dubbio dalla crescente evidenza di problemi economici strutturali in Svezia. D'altro canto, la Repubblica federale socialista di Iugoslavia ha fornito, dal 1950 fino agli anni Ottanta, un esempio di società socialista liberale. Sebbene il partito comunista dominasse, la censura era blanda, l'emigrazione facile, vi era libertà di culto e una combinazione unica di proprietà statale, direzione operaia e iniziativa privata dava vita a un'economia tutto sommato prospera.
Problemi economici attuali
Tra il 1945 e il 1973 le economie dei paesi industrializzati dell'Europa occidentale, del Giappone e degli Stati Uniti crebbero così velocemente da migliorare significativamente il tenore di vita dei propri abitanti. Un'analoga crescita fu registrata da alcuni paesi in via di sviluppo o di industrializzazione, in particolare da alcuni stati del Sud-Est asiatico come Taiwan, Hong Kong, Singapore e la Corea del Sud. Naturalmente diverse circostanze contribuirono a questa eccezionale evoluzione storica. In seguito alle devastazioni della seconda guerra mondiale ci fu un sostanzioso boom generato dalle attività legate alla ricostruzione postbellica, a cui si sommò un abbondante flusso di aiuti dagli Stati Uniti, che generarono una crescita rapida sia nell'Europa occidentale sia in Giappone. Nel frattempo, contribuirono a tale crescita le multinazionali statunitensi, che investirono massicciamente nel resto del mondo e, aspetto forse più importante di tutti, la grande abbondanza e il basso costo dell'energia.
Problemi energetici
A partire dal 1973, in presenza di una crescente domanda internazionale di petrolio, l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), che controlla il grosso delle riserve petrolifere mondiali, ritenne opportuno aumentare bruscamente i prezzi: il petrolio, che nell'autunno del 1973 costava 2 dollari al barile, verso la metà del 1981 era rincarato di circa 20 volte. Le politiche dell'OPEC, di conseguenza, portarono a una drammatica riduzione delle possibilità di una rapida crescita economica sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo che non possedevano petrolio. I paesi del Terzo Mondo importatori di petrolio dovettero allora farsi prestare somme enormi, principalmente dalle maggiori banche dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti; schiacciate dal peso degli interessi da pagare, le nazioni povere sono state negli anni obbligate a ridimensionare i propri piani di sviluppo. Per quanto la brusca diminuzione del prezzo del petrolio abbia molto favorito negli anni Ottanta i consumatori delle nazioni importatrici, ha tuttavia peggiorato la situazione dei paesi esportatori quali Messico, Nigeria, Venezuela e Indonesia.
Inflazione e recessione
Anche le nazioni che negli anni Settanta e Ottanta ottennero i risultati migliori, come Giappone e Germania Occidentale, dovettero, al pari delle altre, affrontare continue gravi situazioni di inflazione, disoccupazione e scarsa crescita economica; all'inflazione contribuì in notevole misura il forte rincaro del petrolio verificatosi in quegli anni.
Il ruolo dello Stato
I seri problemi economici degli ultimi anni hanno stimolato un ampio dibattito sul ruolo della politica pubblica, che ha visto, in Europa, auspicare da parte dei partiti di sinistra un maggior grado di controllo e di pianificazione. Negli anni Ottanta il problema è stato affrontato in modo totalmente diverso dal governo del Partito conservatore guidato dal primo ministro Margaret Thatcher in Gran Bretagna e dall'amministrazione repubblicana del presidente Ronald Reagan negli Stati Uniti. In entrambi i paesi si è ridotta l'imposizione fiscale delle imprese private e la loro regolamentazione, con l'intento di accrescere i profitti e incoraggiare gli investimenti, la produttività e il rilancio della crescita economica. Questi sono stati gli elementi centrali delle deludenti politiche attuate dalla Thatcher e da Reagan. Queste politiche, volte ad accrescere i profitti delle imprese per stimolarne l'attività, si basavano altresì sulla speranza che la tecnologia potesse ridurre i costi delle fonti energetiche alternative al petrolio e che altri settori, quali l'informatica e l'agricoltura, potessero registrare una rapida crescita in virtù di innovazioni e di nuove tecnologie.
Economie sottosviluppate
Le nazioni povere, bisognose d'aiuto da parte di quelle ricche sotto forma di capitali, di esperienza tecnologica e organizzativa, necessitano anche di un accesso ai mercati delle nazioni industrializzate per commerciare i propri prodotti e le materie prime. La capacità politica dei paesi ricchi di rispondere a questi bisogni è tuttavia condizionata fortemente dal loro successo nell'affrontare l'inflazione, la disoccupazione e il ristagno della crescita. Nelle comunità democratiche continua invece a rimanere estremamente difficile proporre di assistere i paesi stranieri quando la situazione finanziaria interna è pesante; altrettanto difficile, per ragioni politiche, è consentire la libera importazione di merci estere a buon mercato, quando queste sono giudicate la causa della disoccupazione tra i lavoratori interni: l'economia dello sviluppo è pertanto intimamente legata alle circostanze politiche globali.
Sguardo sul futuro
Su quanto possa durare la crescita economica le opinioni sono discordanti. Gli osservatori ottimisti puntano sulla possibilità di migliorare la resa delle coltivazioni e di rafforzare la produttività industriale attraverso l'innovazione tecnologica. Quelli pessimisti evidenziano le risorse in diminuzione, la mancanza di controllo sulla crescita demografica, l'eccessiva spesa militare e la riluttanza dei paesi ricchi a dividere la propria ricchezza ed esperienza con le nazioni meno fortunate. Per quanto molti paesi del Terzo Mondo siano riusciti negli ultimi anni a ottenere notevoli tassi di crescita, l'instabilità politica, la corruzione endemica e le ampie oscillazioni delle politiche economiche portano, per alcuni paesi, a prevedere un futuro ancora più difficile di quanto non sia già l'attuale situazione.
 
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